martedì 11 ottobre 2011

Una cosa seria


Giocavamo a pallone di giovedì. Appuntamento fisso. Da Ciccone, a San Luigi, prima ancora che da Brescia. A cinque, a sei, a sette. Ci chiamavamo Partizan1 e Partizan2, prima ancora che Metalurg, Dinamo e Titograd. Molte volte mischiando le squadre, a dimostrazione che l’origine era comune. Così come il senso d’appartenenza. Agonismo e rispetto. Per anni, fino al 2007, ci siamo bastonati in campo, senza arbitro e con la sola regola della lealtà. A memoria nostra, mai un problema. Poi provammo a dare una nuova forma a questa nostra sfida infinita. Con Fiorenzo, che all’epoca aveva una squadra che si chiamava Piselli sfusi, e la Speranzull di Quatrale, organizzammo un quadrangolare. Aggiornammo il blog che avevamo da tempo.
Si chiamava Campi plebei.

Ieri sera una squadra ci ha preso a pallonate. Abbiamo perso. Di tanto. Una cosa che succede spesso, che di solito non ha mai rappresentato un problema. Prima della partita abbiamo chiacchierato con Fiorenzo. “Sono tranquilli, amici, non stanno inguaiati ma neppure sono campioni”. Noi, che sapevamo dell’estromissione dall’Essedì degli unici due “cessi”, probabilmente ci abbiamo messo del nostro, ma sono bastati dieci minuti di partita per capire. Peggio, per perdere la voglia. Una cosa che non ci è mai capitata, da sette anni a questa parte. Questo torneo non ci somiglia. Non ci somigliano i falliti che sfogano la loro mediocrità allestendo squadre di categoria per un torneo amatoriale e gratuito; non ci somigliano i manager da playstation, che sognano un contratto Sky e la mutazione genetica della nostra creatura, plasmata sulle regole della strada per gente che in strada c’è stata e ci sa stare; non ci somigliano gli imprenditori che parlano di marchi e loghi e imprimono marchi e loghi sulle campagne pubblicitarie delle loro imprese familiari. E neppure quelli per cui la colpa è nostra e i malandrini che prima o poi ci faranno gonfiare di botte da qualche amico loro. Abbiamo perso con gente che in vantaggio di una decina di reti correva disperata a raccattare palloni per fare quanti più doppi passo, tacchetti, gol possibili. Ci sta. Ci sta meno che a fine partita, TRA DI LORO, negli spogliatoi, vi siano state le presentazioni. “Come hai detto che ti chiami? E che lavoro fai?”. E meno male che c’era stata una riunione, che si era parlato di ritorno alle origini, di amici. Ma amici di chi, se manco tra loro s’erano mai visti?

In sintesi. Bande di sconosciuti hanno attraversato quei campetti. Campioncini frustrati, allenatori disastrati, gente che parla di “spirito plebeo” ma che poi per vincere una miserabile semifinale si farebbe asportare un rene. Si era fatto appello alla coscienza degli organizzatori. Gli organizzatori ci hanno ribadito, ieri notte, che la colpa è nostra. E di nessun altro. Nostra perché non facciamo sedute d’allenamento e ritiri durante la calda estate. Nostra perché arriviamo al campo nervosi e stressati. Nostra perché non capiamo la goliardia di gente che si fa pubblicità a suon di pizze col nostro nome. Colpa nostra. Non certo di chi prende il telefono e convoca i migliori sei-sette elementi della sua agendina. L’avevamo detto: potremmo farlo anche noi. Potremmo portare gente di categoria, che non c’entra con le nostre serate e la nostra vita. Non lo facciamo perché non vogliamo snaturare il torneo. Ma, di fatto, c’è chi a questo ha lavorato per almeno due anni. Onore al merito.

E allora, unilateralmente, lasciamo gli organizzatori al loro delirio e i campetti alle squadre che neppure si conoscono. A ciascuno il suo. Ma prima di chiudere la porta, ci riprendiamo il nostro torneo. Perché non possiamo permettere oltre che il nome di quel gioco nato tra amici cinque anni fa venga sporcato da arrivisti in erba, pubblicitari e gente che si prende troppo sul serio. A chi ci accuserà di non voler crescere, rispondiamo da subito che crescere non equivale a perdere i valori; a chi ci accuserà di essere dei perdenti cronici, rispondiamo che si, perdere fa male, ma per vincere non siamo disposti a venderci il culo. O a perdere la faccia. Auguriamo a chi resta di divertirsi anche per noi, che avevamo smesso. A ciascuno il suo.

La Dinamo Pagano 38, già Metalurg, già Partizan.1, già Campi plebei.

sabato 8 ottobre 2011

IX PLEBEI MEMORIAL "AGOSTINO DI BARTOLOMEI"

È ufficiale, la prossima edizione del ns torneo sarà intitolato all'indicabile capitano della Roma morto suicida.


Cresce calcisticamente vicino al suo quartiere Tor Marancia all'OMI, sino alle giovanili della Roma[1]. Con i giovani vince il titolo ed il passaggio in prima squadra avviene nella stagione 1972-1973. L'esordio avviene il 22 aprile, pochi giorni dopo il suo diciassettesimo compleanno, contro l'Inter a Milano (0-0): il suo primo tecnico sarà Manlio Scopigno.
Nella stagione 1973-1974, alla prima giornata contro il Bologna (2-1), arriva il primo gol con la maglia giallorossa, valido per la vittoria. Nelle prime tre stagioni con i grandi colleziona 23 presenze, poi passa un anno a Vicenza per maturare definitivamente. Al ritorno diventa un punto fermo dei giallorossi. Dal 1976-1977 al 1983-1984 salta pochissime gare e a fine anni settanta diventa il capitano della Roma. Il campionato 1977-1978 è per lui il più prolifico: 10 reti; l'anno dello scudetto invece realizza 7 reti.
L'allenatore Nils Liedholm lo posizionava davanti alla difesa. In totale giocò con la Roma 308 gare (146 da capitano) segnando 66 gol. In undici stagioni giallorosse conquistò anche tre Coppe Italia.
Nella sua avventura romana ha ricevuto un'espulsione, nella stagione 1978-1979, contro la Juventus (gli venne sventolato il cartellino rosso insieme a Pietro Paolo Virdis), partita in cui segna anche la rete della vittoria.
Nel 1984, con l'arrivo di Sven Goran Eriksson sulla panchina, venne venduto. Giocò la sua ultima partita in maglia giallorossa nella finale di Coppa Italia vinta contro il Verona. I tifosi gli dedicarono uno striscione: «Ti hanno tolto la Roma ma non la tua curva»[2].
Militò successivamente nelle file del Milan, e durante questo periodo, nel 1985, nella partita contro la Roma fu colpito da Francesco Graziani, con la partita che si trasformò in una rissa[3]. Con il Milan disputa tre stagioni segnando, tra l'altro, un gol in un derby.
Nel 1987 il Milan entrò nell'era Sacchi, e Di Bartolomei fu ceduto al Cesena; concluse la sua carriera nel 1990, nelle file della Salernitana, dove contribuì al raggiungimento della promozione in Serie B dopo 23 anni di assenza.
La morte

Morì suicida il 30 maggio 1994 a San Marco (frazione di Castellabate), un paesino della costa cilentana dove viveva. Dopo aver pulito con cura la sua pistola Smith & Wesson calibro 38, si sparò dritto al cuore alle 08:50 del mattino, sul balcone della sua villa. Erano trascorsi dieci anni esatti dalla finale di Coppa dei Campioni persa dalla Roma contro il Liverpool.

I motivi del suicidio, inizialmente ignoti (si parlò di alcuni investimenti andati male), divennero chiari quando venne trovato un biglietto strappato in cui il calciatore spiegava i motivi del gesto: non la presunta crisi economica (si disse che gli era appena stato rifiutato un prestito) bensì le porte chiuse che il calcio serrava di fronte a lui: «mi sento chiuso in un buco», scrisse.